Il signor Sotto Sotto (e la verità che ne deriva) - Capitolo I


Ciao a tutti. Oggi inizia una nuova storia, piena di filosofia.
E' un racconto lungo, e l'ho suddiviso in 9 puntate; spero vi piaccia!
Buona lettura
Enza Emira


1. La panchina
Il portone di legno e pomi d’ottone era antico e molto pesante.
Ciro fece fatica ad aprirlo, intimidito dallo sguardo duro e corrucciato della portinaia. La donna aveva appiccicato il naso alla vetrata da cui prendeva la posta dal portalettere e, respirando con le narici larghe, studiava i movimenti di quel ragazzino, nuovo arrivato.
Ciro era a disagio, perché quella città non gli aveva fatto una gran bella impressione. Perché a casa (la sua casa di prima, della vita di prima), la porta d’ingresso era di vetro e ferro ed era leggera, così leggera che persino il venticello caldo del crepuscolo riusciva ad aprirla.
Ora gli toccava quel portone, doppio, spesso come la coltre di grigio che copriva i tetti di quei palazzoni, case messe in circolo attorno alla piazzetta come vecchie comari con la voglia di chiacchierare fino a notte tarda.
Un raggio di luce entrò nell’atrio. Era sole. Sì, sole. Ciro si stupì perché erano cinque giorni che si era trasferito lì ed era la prima volta che lo vedeva filtrare tagliando, con il suo calore, l’aria stagnante tutt’intorno.
Scostò il portone spingendolo con forza. Rapido si infilò nel varco lasciando che l’uscio si chiudesse dietro di lui per forza del proprio peso, così repentinamente da sfiorargli le scapole.
Sgranò gli occhi per far entrare la luce e i colori: il verde, il giallo e il bianco della piazzetta che ora si apriva davanti ai suoi piedi. Si strofinò le mani sui jeans per far sparire quella sensazione di aridità che gli era rimasta nelle palme a seguito dello sforzo per aprire.
E fu allora che notò  la panchina di pietra.
Bianca, levigata, rettangolare, macchiata dall’ombra delle foglie del platano che la sovrastava.
Era molto simile a quella che era nell’aia della vecchia masseria dove sua nonna lo portava a cogliere le olive. “Per fare l’olio “buono” non quella 'schifezza' – diceva – che vendono dentro ai supermercati”.
Sentì sulla pelle del viso un po’ di tepore che lieve accarezzò la peluria che  incominciava a velargli le guance.  Respirò cercando sulla lingua il sapore del mare disperso nell'aria. Trovò solo quello del piombo.
S'andò a sedere e chiuse gli occhi; voleva concentrarsi sui rumori come faceva, spesso e volentieri, tempo prima a casa sua.
SRRFFF Non onde del mare ma un tram. Passava sferragliando sulle rotaie mentre le auto in coda davanti al semaforo rosso borbottavano in attesa di ripartire.
Fece un mezzo sorriso pensando che sull'aia della nonna i rumori erano altri. Un trattore di rientro dai campi, le papere starnazzanti, il grano frusciante.
Riaprì gli occhi e concentrò tutta la sua attenzione sull'aiuola dietro la panchina. L’odore l’aveva attratto. C'erano rosmarino, salvia e timo. Un ben strano miscuglio per una piazzetta piena di prato, rose di bordura e qualche iris. Ci ficcò dentro il naso.
Che profumo fantastico, come certe giornate passate a ciondolare in bicicletta quando la scuola era finita. Decise di stendersi sulla panchina per avere il naso all'altezza del rosmarino in fiore e goderne del profumo.
Chiuse gli occhi e vide il suo paese, dove le strade non erano asfaltate a pennello, dove bastava una folata di vento per alzare nuvole di polvere, dove si poteva andare in giro tranquillamente, dove, infine, le cicale frinivano tutto il giorno e il sole a mezzodì era così abbacinante da impedirti di aprire gli occhi.
Chiuse le palpebre e appoggiò il braccio sulla fronte. Il vento si infilò sotto solleticando le sue gote e facendogli quasi da ninna nanna. Sentì i muscoli delle gambe ammorbidirsi, la bocca che sempre fremeva fermarsi, il collo ritto allentarsi.
S'addormentò.

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